Il Santuario

La chiesa di San Giacomo proclamata “Santuario Diocesano” dal vescovo di Patti in data 27 Settembre 1999, in occasione dell’anno Santo Jacobeo, fu edificata dai Normanni ed attestata già a partire dal 1227, con bolla di Papa Gregorio IX del 21 Agosto, che la considerava parte integrante dei possedimenti della Chiesa di Betlemme.

Ebbe un notevole incremento nel 1282 con l’arrivo degli aragonesi, i quali ampliarono e disboscarono buona parte del territorio circostante il preesistente cenobio e la chiesa domenicana.

L’edificio dapprima ad una navata, venne ingrandito e portato nel ‘500 a tre navate.

Posto ad occidente del territorio capitino, si trovava sulla via di comunicazione della trazzera regia Paternò – S. Stefano di Camastra che collegava i centri di Catania con le coste del Tirreno.

La chiesa viene citata nelle Rationes decimarum del 1308-1310, tra le chiese che pagavano le decime alla città di Roma.

In un antica bolla di vari Vescovi, data in Avignone nel 1333, venivano concesse ai fedeli varie indulgenze quando visitavano il Santuario di San Giacomo nei giorni di: Natale, Circoncisione, Pasqua, Epifania, Ascensione, Pentecoste, quando accompagnavano il viatico o per quanti portavano gli infermi l’olio santo per l’estrema unzione.

Nel 1420 diventa celebre Santuario, quando il cavaliere aragonese Sancio De Heredia vi deposita alcune sacre Reliquie tra le quali un pezzo della vera Santa Croce, la giuntura di un dito di S. Giacomo, il braccio di San Nicola di Bari e il braccio di San Paolo.

Ne scaturisce l’afflusso di tanta gente, un notevole incremento demografico e di conseguenza vari benefici economici. Intanto la chiesa ampliata e preparata ad accogliere sempre più fedeli e pellegrini, diventa parrocchiale con la concessione della somministrazione dei sacramenti e del fonte battesimale.

Questo raro pregio andò a suscitare la gelosia e l’invidia della “Cattedrale di Messina”; proprio a Messina si riteneva, infatti, che le insigni Reliquie dovessero essere conservate in una chiesa di maggiore rilievo. Perfino il re Alfonzo implorò gli oracoli di Papa Eugenio IV, il quale, con breve dell’11 Novembre 1431, dispose la fondazione di un cenobio di religiosi in quel Santuario o il trasferimento dei medesimi in una chiesa cospicua e ben servita.

Il Papa avrebbe concesso inoltre indulgenze e dichiarato l’esenzione da decime, collette, tasse e ogni alto ònere, per quella chiesa o quel monastero in cui sarebbero state trasferite le Reliquie del patrono di Spagna.

Di ciò ne approfittarono l’Arcivescovo, il Capitolo e il Senato di Messina da tempo desiderosi di quelle Sacre Reliquie; sulla base di quanto dichiarato dal decreto del 12 Ottobre 1432 emanato dal re Alfonzo, ne fu ordinato il trasferimento da Capizzi a Messina, anche se, nella cittadina nebroidea fu lasciato un piccolo frammento di quasi ogni Reliquia.

Il re Alfonzo affidò la ricerca del sacro luogo al cavaliere di Malta Sancio De Heredia, “provisor castrorum” del regio demanio, il quale individuata la cattedrale di Messina, nel 1435 vi trasferì le Reliquie custodite a Capizzi.

Dall’inventario delle Reliquie della cattedrale di Messina si legge: “ in un braccio d’argento che tiene una cocciola sopra della quale posa una lanternetta di cristallo, dentro di essa si conserva una giuntura del dito del glorioso San Giacomo Apostolo Maggiore”.

Non si conosce il perchè di tale gelosia da parte di Messina.

Dal momento che il cavaliere Sancio De Heredia nel 1426, aveva istituito a Capizzi, proprio fuori dalla cinta muraria, sulla trazzera Capizzi-Cerami, lo splendido e ben servito monastero di Santa Maria del Piano, gestito dai monaci benedettini, il cui abate era membro del braccio ecclesiastico del parlamento siciliano al 36° posto, le sacre Reliquie avrebbero potuto essere custodite nello stesso monastero della cittadina.

Alla chiesa di San Giacomo, infine, fu concesso solamente di avere dalla Chiesa Madre i pezzetti di Reliquie, per esporli e condurli in processione nel giorni designati.

Lo stesso Santuario rimase incompiuto fino al 1740, quando alcune famiglie intervennero economicamente; tra queste la famiglia Emanuele, grazie ad un significante legato e l’opulenta famiglia Principato tra cui nobildonna Caterina. I lavori si fermarono alcuni anni dopo, per le famosi “liti tra la chiesa di S. Nicola e quella di S. Giacomo” per poi riprendere nel 1771 mediante il finanziamento di altre nobili famiglie: i Russo, i Mancuso, i Larcan e l’abate don Pasquale Castronovo.

La Facciata, rimaneggiata dal sarcedote-architetto capitino Pietro del Campo, è composta da due ordini di colonne che sorreggono la trabeazione superiore.

La statua del Santo titolare si trova sopra il portale, in una nicchia, scolpita dal Culò con Mascali Sciacchitano nel 1883.

Torreggia nell’ala meridionale della chiesa il campanile, la cui punta fu staccata da un fulmine nel 1815.

In esso si trovano sei campane e tra queste, la più grande si presenta anche come la migliore sia per manifattura che per il suono; in alto un orologio scandisce le ore.

L’interno della chiesa, costruita a forma di basilica con il pilastri di ordine composto, è tripartito a tre navate quasi uguali sostenute da dieci pilastri rivestiti da stucchi un tempo dorati.

La volta della navata principale è pregiata, con squisite pitture eseguite da Giuseppe Crestadoro (1711-1808) della scuola Vito D’Anna, raffiguranti alcune azioni del Santo; in particolare nel dipinto centrale è rappresentata la battaglia di Clavijo (884) fra il re Ramiro I di Austuria e Abd-al-Rahmàn III di Cordova, con San Giacomo nella veste di Matamoro; l’altro dipinto raffigura San Giacomo che, condotto al supplizio, risana uno storpio; nel dipinto in basso è rappresentato il martirio del Santo voluto dal re Erode Agrippa I.

Anche l’interno della cupola è rivestito di pitture raffiguranti l’evento straordinario della Trasfigurazione del Signore, cui Giacomo è testimone con gli Apostoli Pietro e Giovanni; infine, in basso, vi sono rappresentati i quattro Evangelisti.

Undici altari articolano l’interno delle navate minori realizzati con marmi colorati di provenienza locale.

L’altare maggiore, visibile fino a pochi anni fa, ora non più esistente, era formato da bei marmi lavorati, indorato e intarsiato di vari colori e con una scala “u munti” sulla cui cima era collocato il Santo; proprio sotto l’altare giaceva il corpo del cavaliere aragonese Sancio De Heredia.

I due altari laterali, sono dedicati al santissimo Sacramento e alla Madonna del Soccorso in marmo bianco, opera di Antonello Gagivi realizzata nel 1508.

Gli altri altari sono dedicati rispettivamente a: San Giuseppe, all’Assunta (opera di Francesco Zappulla 1786 – di patronato della casa Principato), a San Gaetano, a San Francesco di Paola, a San Biagio e al Cristo spirato in croce, con ai piedi San Francesco, opera del capitino Benedetto Berna figlio di Giacomo (quest’ultimo altare delle Sacre Stimmate di S. Francesco fu eretto nel 1712 dalla Compagnia della Buona Morte).

Vi sono inoltre altri pregevoli quadri quali: il transito di San Giuseppe, opera di Giovan Battista Quagliata (1603-1673), l’Assunzione di Maria Vergine opera di Elia Interguglielmi; la tela di San Michele Arcangelo del pittore Stefano Berna su devozione di Suor Donna Principato Maria, commissionato il 12 Aprile 1705; la tela di Maria Santissima Annunziata di Vincenzo Manno (su devozione di Suor Saveria Mancuso e Gullo 1802); San Benedetto; San Luigi Gonzaga; la tela della Sacra Famiglia, opere dapprima collocate nella chiesa della Santissima Annunziata, ed in seguito alla chiusura del culto, trasferite nel Santuario.

Gli altri due altari sono rispettivamente in onore di San Giacomo, di patronato della famiglia Emanuele, dove si conservano ancora oggi, tutte le sacre Reliquie e alcui interno è raffigurata una grande conchiglia, e la cappella di Gesù Crocifisso, di patronato della famiglia Russo.

La statua di legno del Santo titolare è di modesta fattura; pregevoli sono il coro, il pergamo per gli intagli eseguiti da Placido Di Vita da Palermo, e l’organo per la doratura bene eseguita.

La chiesa è infine, ricca di sacri arredi e suppellettili d’oro e d’argento fatti eseguire a Palermo dall’abate Luigi Mancuso e dal sacerdote don Giovanni Antonio Russo: vengono conservati nella sacrestia che si disloca in due ampie stanze, l’ultima delle quali è ornata dagli intagli in noce con cassettoni eseguiti da Placido Di Vita da Palermo.

Altre opere di valore che fanno parte della chiesa sono il fonte battesimale in marmo lavorato, e una fonte utilizzata dai sacerdoti per lavarsi le mani prima della celebrazione della Santa messa, che si trova nella sacrestia, realizzata in marmo tratto dalla cava di Roccazzobianco, sita nel nostro comune.

Il pavimento di marmo bianco e rosso venato, estratto nelle contrade Roccazzobianco e Ginestra fu lavorato dagli abili scalpellini appartenenti alla famiglia dei Culò.

Il Santuario era la sede della Compagnia della Sciabica o dei Flagellati, della Confraternita della Beata Vergine dei Sette Dolori. Queste Confraternite non esistono più da tanto tempo ormai.